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Clik here to view.Beach Rats, di Eliza Hittman. Con Harris Dickinson, Madeline Weinstein, Kate Hodge. Cineasti del Presente.
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Clik here to view.Faccia d’angelo, corpo da spottone Calvin Klein-Armani-D&G. Frankie passa le sue giornate in spiaggia con gli amici, a farsi di ogni possibile droga. Una ragazza lo rimorchia, se lo porta a letto. Ma lui è un po’ che va su certi siti gay, ed è alquanto incerto su gusti e preferenze. Sembra il solito ritratto di una gioventù sessualmente fluida. Invece Beach Rats man mano si incupisce, e si fa dramma a tinte quasi pasoliniane. Con l’omosessualità a perturbare e sconvolgere come una volta. Un film crudo, parecchio interessante e in controtendenza. Voto 7+
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Clik here to view.I ratti da spiaggi son quattro ragazzoni, poco più che adolescenti ma ampiamente riforniti di bicipiti, addominali e quant’altro che, non avendo nulla di serio da fare, e non avendo peraltro nessuna voglia di farlo, se ne stanno tutto il giorno su una spiaggia della loro Brooklyn a crogiolarsi e rosolarsi e cazzeggiare buttandosi di tanto in tanto in acqua. O giocando a pallamano. Aspettando la sera per andare in qualche infame lunapark o infame fooderia. Ennesima filiazione-clonazione del genotipo narrativo dei vitelloni riminesi. Aggiornato naturalmente allo strafattismo, alla stolidità, allo zero etico, al narcisismo patologico dei tempi nostri. I Beach Rats del film son quattro amici sempre semisbiottati al sole, sempre a passarsi una canna, sempre a rimorchiare o farsi rimorchiare dalle ragazze (è la raggiunta parità, bellezza). Il più fico, e in apparenza anche quello dotato di una qualche cellula cerebrale funzionante e di una qualche benché opaca vita interiore, si chiama Frankie, vive con la madre, la sorella più giovane e il padre malato terminale di cancro. Succede che Frankie rubi pillole su pillole dei cosiddetti farmaci palliativi prescritti al padre, e sono oppiacei probabilmente che lui – non bastassero il fumo, la coca, le metamfetamine – usa per sballare-ottundersi, o che rivende per tirare su un po’ di soldi (con i quali comprarsi fumo e coca, ecc.). Ecco, una vita così, nostante quella faccia d’angelo e un corpo da spottone Calvin Klein-Armani-Dolce & Gabbana. Naturalmente una ragazza sveglia, e pure con cervello, lo adocchia subito. Ma qualcosa a letto con lei non funziona. È che lui ama andare su certi siti gay, limitandosi all’inizio a chattare e masturbarsi, passando poi agli incontri live. Con tizi ‘older’, più grandi (e non tiriamo fuori per favore l’edipico, la figura paterna ecc.; è che gli piacciono i quaranta-cinquantenni, e va così). Ora, Beach Rats sembra per un po’ la solita storia del ragazzo contemporaneo dalla sessualità liquida, un po’ di qua e un po’ di là, tanto siamo fluidi no? E quando i suoi partner maschi gli chiedono: ma a te cosa piace, lui risponde pronto e sincero: io non ho ancora capito che cosa mi piace. Vabbé – si pensa -, Frankie ti fidanzerai al più presto con la tizia carina che ti ha portato a letto, tutto si sistemerà, al massimo ogni tanto dopo una fumata o una sbronza qualche toccata masturbatoria con gli amici, e che sarà mai di questi tempi signora mia. Invece no. Il film, da ritratto dei nostri giovani presunti liquidi e fluidi, man mano si incupisce, si fa cosa seria, si fa dramma e perfino tragedia. Che volete, Frankie è ancora immerso in un ambiente, in una cultura maschio-proletaria tendente al white trash dove gli omosessuali sono ancora considerati omosessuali, cioè non uomini, altro che gender culture. Sicché il nostro angelo della spiaggia si ritrova addosso quel conflitto da cinema anni Cinquanta-Sessanta, tutto quel tormento interiore tipo ‘Dio mio mi piacciono gli uomini e adesso che faccio?’. E la vergogna, e il senso di colpa. E più Frankie si tormenta e più convulsamente e compulsivamente va a cercarsi amanti ‘older’ da farsi preferibilmente open air sulla spiaggia. Siamo alla classica doppia vita pre-liberazione omosessuale, pre coming-out, con gli amici fai il figo sciupafemmine, poi di notte via con le pratiche orali e anali con altri maschi. Il film della newyorkese Eliza Hittman, pur aggiornato ai modi e climi della disinvolta e bruciata contemporaneità, assomiglia moltissimo al vecchio cinema omosessuale fondato sulla colpa. Con perfino un sottofinale che dire alla Pasolini non è così fuori luogo (dico solo: Ostia). Il che, in tempi di gaytudine (apparentemente) sdoganatissima e conciliata con il mondo, di gay matrimoniabili pronti a presentare – nei film come nella vita – il fidanzato a mamma e papà, suona insieme strano, inattuale, e molto interessante. Trovo che ci sia più verità, e realtà, e vita, in questo film, e nelle angosce del suo Frankie, che nella melensa ideologia gay oggi trionfante. Un film crudo, che non ce la fai a dimenticare e anzi ti cresce dentro, e che potrebbe anche vincere qualcosa. Con Harris Dickinson è forse nata una stella. Con la macchina da presa di Eliza Hittman che lo avvolge e lo accarezza e lo feticizza come di solito solo i registi gay. (Nota: Carlo Chatrian nella conf. stampa di presentazione del festival a metà luglio a Milano aveva parlato della crisi-sbandamento-smarrimento del maschio come di uno dei temi cruciali dei film di quest’anno: aveva ragione, altroché. Lo dimostrano ieri Beach Rats e Lola Pater, oggi Ta peau si lisse di Denis Côté, e siamo solo al secondo giorno).
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Locarno 70. Recensione: BEACH RATS. Bello, sexy e sessualmente incerto. Anzi gay
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