Uno dei cinque film che ho visto mercoledì 3 agosto.
I Had Nowhere to Go, un film di Douglas Gordon. Con Jonas Mekas. Cineasti del presente.
Un videoartista racconta a modo suo, oltre i modi e i moduli del buiopic, pezzi di una vita straordinaria, quella del 94enne Jonas Mekas, guru del Nuovo Cinema Americano anni ’50/60. Anche se di lui si parla soprattutto come rifugiato e displaced, come ragazzo in fuga dalla Lituania in guerra e poi intrappolato nella Germania nazista. Schermo buio per gran parte della proiezione, mentre la voce di Mekas legge pezzi della propria storia. Fughe dalla sala. La sensazione è che Douglas Gordon più che mettersi al servizio di Mekas lo abbia preso a pretesto per una narcisa operazione tra cinema e videoart. Voto 6 meno
Un videoartista di lunga e premiata carriera, anche con parecchi incursioni e sfioramenti e commistioni con il cinema. Oltre a essere stato giurato a una mostra di Venezia, l’inglse Douglas Gordon ha dedicato, immagino a modo suo, in piena coerenza con il suo tragitto d0artista, un film a Zineddine Zidane. Stavolta si misura con un altro personaggio, più cultistico e meno popolare, mister Jonas Mekas, leva 1922 (fate voi i conti precisi, son comunque più di novanta), tra i fondatori e nomi massimi di quella che è passata agli archivi come Nuovo Cinema Americano tra anni Cinquanta e Sessanta. Un cinema anarchico che s’è costituito al di fuori e in opposizione a ogni industria cinematografica, a ogni mainstream, fortemente contaminato dalle ricerche artistiche e letterarie di allora, contemporaneo alla Nouvelle Vague francese ma assai più affondato nei libertarismi esistenziali ed espressivi statunitensi. Un cinema oggi abbastanza dimenticato. Ma Jonas Mekas è protagonista, e vedremo in che modo, di questo I Had Nowhere to Go, Non ho nessun posto dove andare, emintentemente con la sua storia di rifugiato, desplazado, displaced, come simbolo malgré lui di tutti i senza terra e migranti e espatriati del Novecento, e di questo Duemila. Della sua stagione di artista-cineasta non c’è quasi traccia. Gordon paradossalmente è molto più interessato alle sue tribolate vicissitudini di uomo travolto dalla guerra che alla sua vita di filmmaker e produttore di imagini, di visioni. Certo, mica ci si aspettava un classico bio-docu con intervista e faccione di Mekas a raccontare e rievocare i suoi anni lunghissimi, non siam mica nati ieri, sappiamo bene che un videoartista resta un videoartista (vero Shirin Neshat? vero Laurie Anderson?) e non tradirà mai il suo marchio di fabbrica. Insomma, ci si aspettava qualcosa di non medio, di scostato, ma un’operazione così radicale no, soprattutto a un festival di cinema come, nonostante ogni possibile métissage e contaminazione, cotinua a essere Locarno. Spiazzati i non molti in sala (il Kursaal), ridotti alla fine a un pugno di resistenti dopo le silenziose e clandestine fughe in corso di proiezione. Una vita in fuga quella rievocata sullo schermo, piccole e assai meno pericolose quelle dei critici in platea. Douglas ci mostra solo un paio di volte, e per qualche frazione di secondo, la faccia del novantaquattrenne Mekas, per il resto ce ne fa sentire la voce, mentre legge con il suo accento irrimediabilmente est-europeo pagine sparse e mai in ordine cronologico della sua autobiografia cartacea. E intanto, a comunicarci massimi rigore e autorialità, lo schermo rimane perlopiù nero, virando rarissimamente in azzurro intenso, o solcato sempre assai raramente da immagini con una qualche (qualche) attinenza con il flusso vocale emesso da Mekas, e son patate soprattutto, è uno scipanzè, sono luci a disegnare e squarciare lo spazio filmico. Nient’altro. Qual è stata la prima fotografia ch hai scattato? esordisce il regista con Mekas: “Avevo sedici anni, nel mio villaggio natale in Lituania. A un ufficiale sovietico che mi prese poi la camera e la distrusse, e io dovetti scappare dagli spari”. Dimenticavo: tutto il film è in inglese senza uno straccio di sottotitolo. Forse perché la copia è arrivata troppo tardi, forse perché così ha voluto Gordon per non sporcare l’impatto visuale dell’Opera Sua. Ecco Mekas raccontare capricciosamente, senza rispettare l’ordine dei fatti, pezzi della sua complicata adolescenza e giovinezza. La fuga dalla Lituania ragazzo in tempo di guerra, da un paese conteso tra sovietici e tedeschi. L’arrivo in Germania nel 1944, e lì catturato (pensava di raggiungere in treno Vienna e invece no) e messo a lavorare in una fabbrica fuori Amburgo. Mentre tutto cade a pezzi, la città è bombardata, i tedeschi cominciano a sentire l’odore della sconfitta. Arrivano gli alleati, ma c’è fame, miseria. Raccolti tutti dagli in glsi in un campo di prigionia, soccorsi dalla Croce Rossa. Poi nel ’47 la partenza per gli stati Uniti, l’approdo straniante a Williamsburg (oggi hipsterland), Brooklyn. Un lavoro da Tempi moderni chapliniani in una fabbrica (“le dita si muovevano automaticamente senza che io me ne rendessi conto”), il licenziamento, un altro lavoro. Il senso di non appartenenza, il disorientamento del rifugiato, la scoperta del cinema e delle bellezze oculte di NY, come lo spettacolo del sesso. Capricciosamente Mekas va su e giù nell’asse temporale, mescolando e confondendoci spesso e volentieri, vome un folletto più malizioso che maligno. Intorno e addosso e a lato e fuori schermo intanto Gordon compone la sua partitura fatta di buio, luce, visioni e non visioni, suoni, voci, muiche, rumori che sembran musica concreta (scoppi, spari soprattutto). Sentiamo distintamente perfino Mekas sfogliare le pagine del suo libro. Che dire? Estenuante. Narciso (mi riferisco a Gordon). Un film al servizio di se stesso e della propria identità d’artista, e del proprio orgoglio intellettuale, anziché del soggetto-oggetto raccontato. Ci sarebbe piaciuto vederlo e sentirlo di più, Jonas Mekas. Ma è stato ridotto a innesco e pretesto di un’operazione e di un’Opera d’Artista che lo usa e non gli rende pienamente giustizia. Di buono resta la voglia di saperne di più e di leggerlo, il libro autobiografico cartaceo del gran lituano, e di vedere i suoi film. La partitura orchestrata da Gordon ha momenti di forte suggestione, come no, soprattutto quando lavora sulla voce di Mekas trasformandola in eco di un’esistenza travagliata che potrebbe essere di tutti, che in parte lo è. Siamo tutti refugees, soprattutto di questi tempi. Per un paio di volte la proiezione si è interrotta restando fissa per molti minuti sullo schermo buio e silenzioso, e nn s’è capito se si trattasse di un guasto o fosse stato tutto programmate ad hoc dall’autore, se insomma fossero accidenti voluti, imperfezioni come parte integrante dellì’opera. E mi son sentito come uno di quei visitatori della Biennale che in Vacanze intelligenti di Alberto Sordi, vedendo la moglie chiattona seduta in un padiglione, si ciedono se faccia parte pure lei dell’installazione. Che Gordon volesse giocare con noi spettatori, o forse burlarcoi, lo si era uintuito dalla sua breve introduzione. Mentre spiegava a voce bassissima e pressoché incomprensibile gli è squillato il telefono, e lui a rispondere a un misterioso interlocutore spiegandogli di essere a Locarno a presentare I Had Nowhere to Go. Poi, ha chiuso il cellulare e se n’è andato. Deliziato chi l’ha presa come una piccola performance progettata per l’occasione, mentre a me è parsa solo maleducazione.