Mouton, regia di Gilles Deroo e Marianne Pistone. Con David Merabet, Michael Mormentyn, Cindy Dumont, Benjamin Cordier, Emmanuel Legrand. Francia. Presentato nella sezione Cineasti del presente. Vincitore del premio Opera prima e del premio speciale della Giuria a Cineasti del presente.
Vita di un ragazzo semplice dal cuore semplice, da tutti chiamato Mouton, pecora. Cronaca di un’innocenza offesa, come Mouchette di Bresson, in una Francia nordica e oceanica cuperrima. Un film spezzato in due, con una struttura che sovverte le convenzioni narrative. Mouton non ha convinto tutti, ma è una delle opere più radicali e innovative di un festival che pure ha abbondato in sperimentalismi. Voto 8
Film amato soprattutto dalla critica francofona, che ci ha visto una delle cose migliori dell’intero festival, e salutato come la nascita di una coppia d’autori. Deroo e Pistone non son proprio ragazzi – come si è visto quando in Piazza Grande han ritirato i loro due premi – e con questo Mouton (Pecora) scalano un bel po’ di gradini nel ranking dei registi che contano, e se i guru parigini continuerano a sostenerli per loro sarà fatta, ammessi nell’empireo, nel giro dei grandi festival, delle rassegne internazionali. Perché, diciamolo, sono ancora i signori critici made in Paris a conferire o togliere lo status autoriale, che poi il mondo, America compresa, segue e si adegua. Non so se Mouton arriverà mai in Italia, ma conviene seguirne la parabola con attenzione. Non è il film che più mi è piaciuto in Cineasti del presente (gli ho preferito Manakamana), resta però un bel colpo di cinema, di quello perturbante e disadorno che ti prende alla gola e un po’ alla pancia. Cronaca quasi documentaristica, come usa in parecchio cinema nuovo, anzi cronaca da oggettivo e fattuale verbale di polizia o di tribunale, di una vita semplice. Di un ragazzo semplice da tutti chiamato Mouton, una di quelle creature che solcano la vita contentandosi di quel poco, molto poco, che hanno avuto in sorte, e che pure la sorte poi punisce inesorabilmente, e ingiustamente. Con un che di angelico, Mouton, che ti strazia nella sua sorridente disponibilità alle cose, alle persone, perché capisci che è di quegli esseri che non sanno difendersi dal male. La coppia Deroo-Pistone centra un personaggio che ricorda, nella sua innocenza offesa, la Mouchette di Bresson, e lo fa nei modi del cinema naturalistico alla Dardenne e di quello del primo, implacabile Bruno Dumont (La vie de Jésus, L’Humanité). Molto à la Dumont è la Francia nordico-atlantica in cui si svolge la storia raccontata, con quelle lunghe spiagge su un oceano di piombo e la caligine sulle onde delle maree. Da stringere il cuore, e mi vengono in mente anche due film di Ozon appena dati all’Oberdan qui a Milano che si concludono in luoghi simili, luoghi che vorrebbero essere ameni e vacanzieri e son tristissimi, Il tempo che resta e Sotto la sabbia. Quando poi le atmosfere e gli ambienti tristi non sono, ci pensa la coppia Deroo-Pistone a renderli minacciosi e cuperrimi con una fotografia dai toni tra il catrame e l’antracite. Già l’apertura del film è tremenda, tostissima, con una madre che intuisci essere sventurata la quale protesta e urla perché il tribunale le sottrae il figlio. Mouton, per l’appunto, anni diciassette, che ha chiesto di essere emancipato da lei con un anno di anticipo, e la richiesta è stata accolta. Mouton, con quella faccia da ragazzetto pasoliniano però senza malizia, finisce a lavorare in uno di quei ristorantoni sul lungomare di gran tavolate familiari e amicali e una cucina che è una catena di montaggio di pasti. Ha gesti lenti, ma è coscienzioso, paziente, ha voglia di imparare, ha una sua vena creativa nel disporre i cibi nel piatto (nell’impiattare, come si dice orrendamente oggi nelle tante trasmissioni tv dedicate al food). Non gli si può non voler bene, difatti i colleghi lo adottano subito, e un po’ sul posto di lavoro e un po’ fuori trova subito un gruppetto di amici affezionati. Trova anche una ragazza, la cameriera del ristorante. Scene di pesci pescati, dissezionati, congelati, scongelati, sventrati, fatti a pezzi, smembrati, decapitati, cucinati, impiattati, che sembra a momenti di rivedere l’apocalisse marina di Leviathan, il gran film dato a Locarno nel 2012. Poi, l’inaudito. Durante una festa in onore di Sant’Anna (con la statua della santa che sembra un inquietante idolo barbarico, e in un clima pagano e perfino malsano), nell’ebbrezza collettiva un uomo armato di motosega si avvicina a Mouton e gli trancia via un braccio come in un torture-porn. Sequenze torbide in cui il film trova pienamente se stesso, e il duo Deroo-Pistone realizza alla perfezione la propria idea di cinema fenomenologico e quasi antropologico, in una registrazione del reale (con la solita camera a mano a intensificare il senso di verità) che si rovescia paradossalmente nel suo opposto, in un delirio notturno, in una danza di spettri. Poco dopo, Mouton sparirà dalla narrazione e dalla nostra vista. Fine della sua vita sulla costa Atlantica, si trasferirà da uno zio in Piccardia e di lui sapremo solo quel poco che diranno di lui chi sul mare è rimasto, i suoi colleghi, gli amici. Sta qui la sorpresa grande del film, la sua eccentricità narrativa, in questa seconda parte che abbandona il suo protagonista e spezza, sfrangia e sposta la narrazione su altri soggetti-oggetti del discorso, persone del giro di Mouton rimaste a vivere lungo l’oceano, e che di Mouton parlano solo occasionalmente e marginalmente. Vediamo pezzi della loro vita, Louise che lavora in macelleria, ed è l’unica ad aver mantenuto rapporti via lettera con Mouton, il suo fidanzato che lavora in un canile, i due gemelli amici e il loro fare l’amore a tre con una prostituta, e altri frammenti di altre storie. Solo alla fine si torna a parlare di Mouton, nell’ennesima lettera di Louise. Sicchè il film ci procura un senso di vertigine, sottraendoci il centro della narrazione ci lascia sospesi, fluttuanti, incerti, con molte domande e niente risposte. Diventando forse (forse) il racconto di un gruppo e di un luogo, non più di un protagonista solo. O forse no, forse il film si sottrae al suo oggetto principale per riprenderlo lateralmente e perifericamente e restituircelo in altro modo. Che non è solo un’operazione fredda e cerebrale sulla struttura del film, di spostamento, decostruzione e ricostruzione, ma anche una strategia narrativa che, non mostrandoci più Mouton, ce ne lascia l’infinita nostalgia, il rimpianto di una creatura-angelo che ci è passata vicino e se n’è scappata via.
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Locarno Festival 2013. Recensione: MOUTON, film-rivelazione vincitore di due premi
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